Fin dal 1765 l’avvocato curiale, nel proposito allora preso di annettere il beneficio della chiesa di S. Marco alla collegiata di Asolo, contro il parroco don Piloni, sosteneva la tesi di far costruire una nuova chiesa per le esigenze spirituali e pratiche della popolazione di San Zenone. Si arrivo al 1855 quando il progetto sembrò avere una spinta definitiva. Cinque anni passarono sia nel disbrigo delle pratiche necessarie presso le autorità, sia perché la popolazione doveva sostenere un sacrificio non indifferente per l’onerosità dell’impresa. Le condizioni economiche della chiesa non erano floride, ma don Luigi Sforza e la fiducia degli abitanti nella Provvidenza fecero si che il loro proposito si trasformasse in realtà.
La stessa famiglia dei conti Di Rovero donava il terreno scelto dal parroco per l’area della nuova chiesa quando il vescovo autorizzava l’atto, con l’approvazione favorevole degli stessi fabbricieri Angelo Tedesco, Floriano Mazzarrollo e Andrea Pellizzari, in data 1 novembre 1860. L’approvazione del vescovo spianava la strada per gli altri pareri favorevoli. ln primo luogo quello della Imperial Regia Delegazione. Due furono i disegni per la nuova chiesa. Il 9 maggio 1858 venne presentato il disegno di Andrea Favero, che passato all’ingegnere Francesco Pellizzari di Castelfranco V.to perché ne redigesse “il regolare fabbisogno”, importava una spesa di Lire 73.700. La somma, un po’ troppo onerosa, date le cattive condizioni della cassa parrocchiale, poteva essere ridotta a Lire 60.000. Il disegno non ebbe la dovuta fortuna presso le autorità e non venne approvato. Il 1 settembre 1862, un altro progetto del1’ingegner Pellizzari veniva approvato con la spesa prevista di Lire 45.000. Repentinamente i lavori iniziarono; il materiale di costruzione veniva trasportato dalla popolazione fin presso la costruenda chiesa, dalle notevoli proporzioni.
L’attuale sagrato in una giornata di festa, Don Luigi Sforza, quasi dubitando della riuscita dell’impresa, volle che la cerimonia della posa e benedizione della prima pietra si svolgesse nella maggiore umiltà possibile. Ciò avvenne il 2 febbraio 1860, giorno anniversario dell’ordinazione sacerdotale dell’arciprete e del suo ingresso in parrocchia, avvenuto 19 anni prima. Lo spazio per il piazzale della chiesa ancora mancava fino a quando don Sforza comperò un fondo dai fratelli Cesare e Luca Vignola usufruttuari del loro padre N.H. Sebastiano Vignola. Un consigliere aulico dell’imperatore Ferdinando d’Austria, Francesco Garinger, informatosi dal vescovo di Treviso circa la richiesta di sussidi, il 17 dicembre 1861 annunciava l’assegno di 400 fiorini in argento. La fatica dei parrocchiani, mista all’ardore di riuscire con successo nell’impresa, si prolungò per 10 anni, finché il sacro edificio venne portato al punto quasi sospirato. Si presentò allora il problema dell’abitazione del parroco.
Si susseguirono numerose vicende per l’accaparramento di un fondo da parte di don Sforza, ricevendo sia dal vescovo e dalla Santa Sede un parere negativo, anche se i lavori della canonica erano già stati iniziati. In data 22 gennaio 1872 don Sforza, coraggioso e tenace più che mai, otteneva da Roma la sanatoria. Sul finire del 1870 la nuova chiesa arcipretale era già coperta e si poteva ritenerla adatta al culto. La contentezza e la felicità di don Sforza, come scrive il Bernardi, nel suo La Pieve di San Zenone, erano irrefrenabili e inenarrabili. L’anziano arciprete informava il vescovo dell’obiettivo raggiunto, fissando per il 13 agosto 1871 la solenne cerimonia della dedicazione. Dopo la consacrazione da parte del vescovo, l’arciprete don Sforza moriva in clinica a Padova all’età di 69 anni. Era il 26 luglio 1872. A lui, il 7 settembre 1873 subentrava don Antonio Bianchetto. Per il completamento della chiesa mancavano i lavori di intonacatura esterna e di decoratura dell’interno. L’incarico fu affidato ad un affermato e apprezzato pittore, nativo di Castelfranco V.to, Noé Bordignon, che già nel 1869-1870 aveva dipinto il soffitto. Vi lavorò ad intervalli di tempo, dal 1874 al 1882. Nel frattempo mons. Bianchetto preparava il terreno per la costruzione della torre campanaria, presentando una domanda di sussidio al consiglio comunale, che assegno 4.000 Lire. La delibera, però,veniva bocciata dalla Prefettura, anche se il Comune aveva dichiarato che un tale assegno sarebbe stato coperto dal ricavato della vendita dei terreni comunali incolti. Mons. Bianchetto profuse tutto il suo patrimonio familiare, continuando a lavorare instancabilmente per la chiesa; acquistò 4 magnifici confessionali, le tribune e le cantorie. Il successore, mons. Vitale Gallina, trovo le condizioni adatte per la riduzione di una sacrestia a oratorio della Sacra Famiglia.
A lui si deve la commissione dell’altare maggiore, non di raffinato gusto artistico, ma pur sempre opera che onora il lavoro dei fratelli Cavallin di Pove, i quali lo terminarono nel 1912. Gli affreschi di Noè Bordignon, presenti nella chiesa parrocchiale, rappresentano lungo il soffitto: la carcerazione del Beato Giordano Forzatè nel castello di San Zenone, l’Assunzione in cielo di Maria Vergine e la gloria di San Zenone; sulle pareti laterali, gli apostoli; sull’abside il giudizio universale; la Fede, la Speranza, la Carità sulla lunetta interna sopra la porta maggiore, le prime due sulle lunette delle cappelle laterali. Sono lavori dell’età giovanile dell’artista, densi di sentimento religioso e trattati con tecnica robusta e sicura; fra tutti si eleva la carcerazione del Beato Giordano. L’ armonia sicura della composizione, la calda fusione dei colori e il movimento dei personaggi ne fanno un quadro pieno di vita. Meravigliose e indovinate le figure dei due guerrieri che assistono al colloquio del loro capo con il Beato, il quale campeggia nel mezzo della scena quasi parlante. ll Giudizio Universale è senz’altro l’opera più impegnativa della vasta produzione di lavori a carattere sacro eseguiti da Noè Bordignon. Il grande affresco riecheggia chiaramente il Giudizio Universale di Michelangelo. Il Bordignon, per realizzare il suo grande affresco si è ispirato al noto passo evangelico di Matteo (25, 31-46). Bordignon interpreta il messaggio evangelico, con un tono patetico ed elegiaco, le chiare intenzioni di invito ai cristiani a compiere il loro dovere per aiutare il prossimo. Il Cristo di Bordignon non ha certamente ne la posa ardita ne l’impeto drammatico di quello realizzato da Michelangelo. Il suo gesto non è imperioso, ma solenne e ricorda quello pacato del Cristo dipinto da Raffaello nella disputa del Sacramento. La parte superiore dell’affresco obbedisce ad uno schema abbastanza simmetrico e statico. Ai lati del Cristo si notano alcune figure di Santi e il Re David. A questa scena si contrappone quella terrena: un enorme rettangolo diviso, grossomodo, da una diagonale, la quale, partendo dall’angolo di base a sinistra, arriva sino all’altezza della linea dell’orizzonte a destra. L’enorme rettangolo risulta così diviso in due triangoli: quello superiore, illuminato da una luce abbagliante, contiene quasi tutte le figure degli eletti. La scena evangelica, del resto, presenta un dialogo che dovrà svolgersi tra la moltitudine e il Signore: molte figure, infatti, sono colte nel momento in cui parlano, implorano, gridano impaurite o esprimono un vago senso di speranza. Una speranza, resa certa dall’irrompere nella parte centrale dell’affresco, di un angelo con la tromba nella mano sinistra, mentre con la destra indica la direzione dove si dovranno radunare i giusti: alcuni dei quali stanno salendo o sono già arrivati in cielo. Tra le figure magnifiche degli apostoli spiccano e vanno meritatamente lodate quelle di San Pietro, San Giovanni e Sant’Andrea. La “Carità”, tra le virtù teologali è la più riuscita, animata da un tranquillo sentimento di affettuosa maternità.